Flavio Colusso • Approfondimenti

Approfondimenti

insigni studiosi e personalità della cultura e dello spettacolo
presentano alcune delle opere di Flavio Colusso

Le "Opere di Misericordia" di Flavio Colusso

Claudio Strinati, Pio Monte della Misericordia, Catalogo 2011

Flavio Colusso ha onorato in questo “esercizio spirituale concertato” tutte e tre le sue competenze di musicista. Egli, infatti, è cantante dalla voce nobile e suadente. È direttore d’orchestra filologicamente agguerrito e intensamente partecipe di quel lavoro di scavo e riscoperta sul patrimonio antico che lo vede tra gli attuali protagonisti. È, soprattutto, compositore volto a rinverdire la solenne tradizione del maestro di cappella, autore sensibile e raffinato di opere religiose ma partecipe di quel clima di rinnovamento nel solco della memoria che lo vede immerso con piena consapevolezza nella realtà del nostro tempo, e il nome dell’Ensemble di cui è fondatore e direttore (Seicentonovecento) lo attesta pienamente.

Qui, nell’esercizio da lui composto per il Pio Monte della Misericordia di Napoli - luogo emblematico per antonomasia – in occasione della mostra “Sette Opere per la Misericordia”, porta tutta la sua sensibilissima emotività  e esercita tutte le sue professioni. Vi interviene  in veste di cantante, dirige.
Il maestro deve aver avvertito chiaro come questa composizione abbia, nell’ambito della sua parabola, un significato notevole, tale da giustificare seriamente la rilevanza conferitagli. La tersa e incantata partitura sembra pensata proprio per introdurre il fedele e l’ascoltatore, dotto o indotto, a una autentica “comunione”, esteticamente pregnante e eticamente del tutto convincente, che per gradi successivi lo eleva verso una forma superiore di bellezza e quiete spirituale.
La composizione in effetti, è tutta pensata secondo il criterio della preghiera e dell’elevazione. Si ispira, dunque, alle Opere di Misericordia per come sono adombrate nel testo basilare di riferimento, il Vangelo di Matteo, 25. Qui le opere di misericordia sono in effetti sei e si riferiscono allo sfamare, al dissetare, all’accoglienza del pellegrino, al vestire gli ignudi, al curare i malati, al soccorrere i carcerati. E infatti la composizione è strutturata in otto numeri, cioè le sei Opere, più un coro introduttivo  iniziale che chiama i fedeli e uno finale che celebra l’avvenuta ascesa verso il Regno. Colusso ha pensato che ogni “stazione” debba far sentire questa salita costante verso l’alto, partendo dall’idea antica dell’esacordo. Così il primo numero comincia dal DO (ut), il secondo dal RE e  così via, mentre il finale riparte trionfalmente in DO.
Ma non si tratta di una sorta di semplice escamotage strutturale ma di un sentimento profondo che permette di tenere serrati i ranghi dell’esposizione musicale pur mantenendo una morbidezza di toni e una dolcezza di eloquio mai contraddette nel corso della pur complessa composizione. C’è qui, una idea della Fede come di pacificazione raggiunta  già all’atto stesso del gradino iniziale che ci porterà all’apoteosi finale. A ben vedere tutta la composizione, dalla prima all’ultima nota, è una confidente conquista di una solida certezza di comunione degli spiriti, che trova la sua congruente forma in una maestosa solidità accordale e in una delicatissima trama contrappuntistica che contempera  costantemente lo sgomento di chi si trova di fronte a qualcosa che lo sovrasta con la certezza di quel sentimento di protezione e conforto che la musica, meglio di tante altre forme espressive, può dare anche a chi non sia conoscitore delle cose d’arte. Il finale è orientato proprio in questo senso quando il maestro prescrive che il coro si allarghi a tutti coloro che assistono non distinguendosi più esecutori da ascoltatori. È un ideale estetico che il compositore persegue anche in altri suoi lavori, là dove preme fortemente sul fronte della comunicazione diretta e spontanea, concretizzatasi in partiture di cristallino nitore e di purezza esemplare. Tipico in tal senso è il n. 3 della partitura, che funge quasi da osservatorio da cui può essere scrutata l’intera composizione, gravitante sulla amata tonalità di RE minore che Colusso considera carica di senso simbolico. Il finale è una vera sintesi e si coglie il senso profondo di una scrittura costantemente tesa alla ricerca di una sintesi superiore in cui l’antichissima idea del suono delle sfere ritorna da una memoria ancestrale e pone il maestro al centro di un dibattito sul destino della musica che ha visto anche altri compositori illustri avviarsi, da ogni parte del mondo, su una strada non priva di affinità con la sua poetica. È quel sottile crinale in cui l’idea di un mondo antico inattingibile e il sogno di un mondo ulteriore non afflitto dall’esigenza né della modernità né della conservazione, si incontrano magicamente lungo una specie di scala di Giacobbe che ci porta verso le consolazioni angeliche。
Questo lavoro, così austeramente semplice e sobrio, è un felice raggiungimento di un autore che prosegue coerentemente un suo cammino di spiritualità e di pienezza.

vedi allegato

"Corona armonica" al Combattimento Spirituale

Tre musiche d’oggi ispirate all’opera di Lorenzo Scupoli
Luisa Cosi, "Atti scupoliani" 2010, Lecce, Ed. Grifo, 2014

Scrive Flavio Colusso: «raccogliamo segni, disegni e architetture di un Autore, sperando coglierne il cuore ri-sonante; ma spesso accade che ci bastino le ragioni che motivano le istanze nostre».  È questa l’alea meravigliosa che accompagna, per lo più, il rapporto intercorrente fra compositore e interprete; ovvero, più articolatamente, fra compositore e opera e interprete e  ascoltatore. A volte, lo sentiamo bene,  in questo mobile sistema di relazioni culturali si apre una rete di suggestioni e di rimandi simbolici così fitta, che la creazione di un’opera musicale, e dunque la sua ri-creazione, il suo ri-conoscimento esecutivo e percettivo, diventano la più potente e misteriosa esperienza di comunicazione, la più ricca e avventurosa opportunità che ancora siano date vivere all’uomo contemporaneo, per condividere pensieri, idee ed emozioni.

La musicale corona d’ascendenza “scupoliana” di cui qui si scrive, potrebbe a questo punto figurarsi anche come un rosario di frattali, pronto ad aprirsi, a gemmare in modo pressoché inesauribile verso le più diverse direzioni: focalizzato e approfondito, ogni dettaglio dei tre brani - composti da tre maestri d’oggi in onore di un antico “servo Teatino” - sembra disponibile a farsi carico di sempre nuove valutazioni tecniche ed estetiche. E un simile labirinto di segni andrebbe  poi illustrato con logica verbale, in un traslato di sistemi ‘linguistici’ che è già di per sé un’altra sfida comunicativa.

Un filo d’Arianna, o meglio una “santa guida” tuttavia è data, «perché di ogni cosa della corona si cavi il frutto».  Si tratta appunto dell’antico Combattimento spirituale attorno cui Flavio Colusso, Vito Paternoster e Mariano Paternoster, moderni soldati sul fronte dell’Arte, sono stati chiamati a intrecciare le proprie esperienze di cultura e di vita,  peraltro trovando un trait d’union ulteriore nello specifico timbrico del violoncello solista, scelto quale unico, ideale attore per una tenzone che vuol essere tutta interiore, a impersonare cioè il campione, per dire così, di una «battaglia più d’ogni altra difficile, [… perché] combattendo contro noi, siamo insieme combattuti da noi».  Un aspetto fonosimbolico, questo, da sottolineare, anche tenendo conto della ragione pratica di potersi avvalere, per le prime esecuzioni dei brani, di una verifica interpretativa omogenea,  grazie alla disponibilità di un virtuoso del calibro di Vito Paternoster.

Tre compositori d’oggi hanno dunque tessuto con nodi tutti difformi un’analoga trama “bellica”. Soprattutto, si sono mossi (e impegnati a com-movere l’ascoltatore) verso uno stesso approdo spirituale, così che sia possibile, ciascuno per sua personale esperienza, raggiungere quel raro momento in cui la saldatura ritmica fra mito e rito (per coniugare parole-chiave della riflessione antropologica di Levi-Strauss e di Ries), sembra sopprimere l’inesorabile, indistinto continuum del vivere nostro. Come se certe epifanie sonore riuscissero d’un tratto a portarci fuori da un fumoso e chiassoso fluire, che ci rende come ciechi e sordi, mentre invece possiamo anelare ad una “diversa” e più profonda consapevolezza di noi stessi, per un’esigenza “spirituale” che si  rinnova da millenni in pressoché tutte le civiltà e le culture.

Sollecitare questa tensione  “verticale” era in effetti, anche a parere del combattente Scupoli, il fine cui dovrebbe mirare elettivamente la pratica della musica; una pratica che, fra l’altro, proprio all’epoca di questo soldato  teatino, andava rivendicando pieno statuto retorico, come di “lingua” precipua degli umani affetti. In poche frasi Lorenzo Scupoli sembra dunque risolvere, nella sua operetta morale, secoli di cristianissime diatribe circa la valenza (diremmo oggi, esosemantica o endosemantica) dei suoni, quando essi siano ben organizzati - non necessariamente dall’uomo, come si vedrà – e dall’uomo efficacemente riconosciuti. Ovviamente, lo Scupoli è interessato soprattutto (se non esclusivamente) al livello estesico del fenomeno: in particolare egli pare inteso a conciliare la duplice natura della musica, a risolvere in funzione etica un’ambiguità ritenuta propria del medium in oggetto, in quanto forma di espressione che sembra tener continuamente in bilico l’uomo fra appagamento dei “sensi esteriori” e possibilità di una proiezione spirituale.

Così, agli inizi del Seicento don Lorenzo esorta la “figliuola”, sua ideale lettrice, a considerare come l’ “armonia di suoni e canti” – e, parrebbe di capire, tanto più se armonia costruita dall’uomo e offerta alla percezione umana attraverso forme, tecniche ed esecuzioni accattivanti – non debba limitarsi a gratificare curiosità e “volontà inferiore”, col rischio di spingere la “volontà superiore” a compiacersi per tanta abilità e sensibilità. Fatto è che il godimento sonoro (il quale sarebbe tutt’altro che da fuggirsi, perché un vero combattente mai si sottrae alla prova di sé), questo piacere generato a tutta prima dai sensi, dovrebbe divenire occasione per provare un diletto anche maggiore, capace di scavalcare la stessa percezione sensibile: capace insomma di spalancare le porte ad orizzonti di vera estasi. Scupoli pensa che all’armonia sonora si possa sempre attribuire un senso ulteriore, perché attraverso di essa si possano palesare certe profonde relazioni che connotano il creato: basterebbe riflettere, gioiosamente, su come «tutte le cose insieme, non solo in Dio stesso sprigionano sovraceleste armonia, ma fanno anche meraviglioso concerto unitamente negli angeli, nei cieli e in tutte le creature».  Un viaggio di andata e ritorno, questo della musica fra corpo e anima, fra creato e creatore (tutta la natura in effetti risuona per disegno divino, basta tendere l’udito “interno” per accorgersene), che sembra rinnovare in direzione controriformistica la millenaria dottrina sul nesso intercorrente fra armonia mundana, humana e instrumentalis.
Con la sua minuziosa catechesi, sollecitante una virtuosa esperienza di sé nella totale confidenza in Dio, lo Scupoli si occupa dunque anche del gesto specifico del fare e del ricevere musicali “concerti”: prerogativa essenzialmente umana, ma di cui anche la natura, il creato, s’è detto, possono partecipare, a modo loro e per dono divino. In conclusione il padre teatino ritiene che anche per tale via sensibile si possa realizzare un evento ideale.
Non occorre essere cristiani alla maniera controriformistica del nostro Chierico Regolare (né forse essere religioso tout court) per apprezzare la valenza etica di tale prospettiva estetica. Lo dimostra il profondo coinvolgimento del “pubblico” ad ognuno degli esercizi spirituali che sono stati modernamente concertati, nel corso dell’anno scupoliano, fra la Basilica di S. Giacomo in Augusta di Roma, la Cappella del Tesoro di S. Gennaro del Duomo di Napoli e la Cattedrale di Otranto. Le pagine per violoncello solo, scritte ad hoc da Vito Paternoster, Flavio Colusso e Mariano Paternoster (come s’è accennato sopra, pagine tutte intensamente interpretate dal primo, con la partecipazione della “voce” Silvia De Palma per il brano di Colusso), sono certamente fiorite  da vive tensioni interiori (quelle utili a portare alla luce quanto di “critico” alberga in ciascuno di noi), essendo intese a provocare forti esperienze percettive e immaginifiche. Tali, cioè, da sollevare, almeno per un tratto, «la patina di polveri sottili» con cui «il frastuono del quotidiano contemporaneo inquina la vera forza vitale che è nello spirito dell’uomo».  Un desiderio di elevazione, che è di per sé anelito di conoscenza e, forse, nostalgia di Dio, soprattutto quando non si abbia la Grazia di avvertirNe la presenza.

1.    Ad arma fideles.
«Imprescindibile e fondamentale» resta, nel modus componendi di Flavio Colusso, «il rapporto testo-musica, anche laddove le parole non sembrano presenti».  Ponendo costantemente a confronto i due sistemi simbolici, questo immaginifico discepolo di Domenico Guaccero e Franco Evangelisti (nonché, idealmente, di Arvo Pärt e Pawel Szymanski, per citare solo alcuni referenti “moderni”, in un elettivo peregrinare dentro l’”antico”),  sembra ogni volta volerne mettere a nudo la analoga funzione “comunicativa”, ovvero la comune radice “linguistica”. Quella radice, cioè, che tanto nel suono quanto nella parola, si alimenta di simili parametri spazio-temporali, al fine di connettere fra loro sensazioni, idee, persone. Nel caso dell’“esercizio spirituale concertato”, prassi devozionale cara al Colusso “nuovoantico”, è evidente che tale cooperazione fra musica e parole viene orientata una volta di più con sapiente strategia retorica, così che interprete e ascoltatore siano sollecitati alla più ampia condivisione ed al più efficace riconoscimento delle valenze sottese a suoni organizzati nei modi più suggestivi. Nel limen che corre fra il melos semantizzato dalla parola e la parola accesa e illuminata dalla combinazione dei diversi parametri sonori, la scelta del testo ‘spirituale’ è dunque sempre basilare. Per evocare il nucleo bellicoso del trattatello scupoliano, Colusso pesca fra le sequenze di genere, riutilizzando versi latini che, plinto semantico di suggestive battaglie musical-spirituali combattute lungo tutto il Seicento, egli aveva già usato come chiave di lettura per personali, modernissime riflessioni estetiche.

Le metafore sparse in tali strofe incitanti all’armi, sembrano ben sintetizzare, in effetti, la catechesi di Lorenzo Scupoli. Nella reinvenzione fattane da Colusso, la voce recitante si insinua (come un soffio, ché sempre di battaglia interiore si tratta) fra le nervose e rarefatte sonorità del violoncello solista, generando continui scambi e sovrapposizioni di parametri e di funzioni: solo per breve tratto, sulle parole che offrono pane e cibo di redenzione, è dato al cantante di assaporare il melos, quasi a sottolineare la dolcezza e purezza delle armi salvifiche, a fronte dell’aspra, sotterranea lotta che occorre sostenere contro l’antico serpente.  Né il violoncello si limita a intensificare per ipotiposi il senso di queste parole, che evocano intimi furori e mistici trionfi. Con precisa logica formale (portatrice appunto di senso ulteriore), veloci anabasi e catabasi ad libitum, ovvero sinuosi percorsi cromatici, si incastrano fra i ritorni di alcune cellule accordali, che dunque figurano quale struttura portante del brano – significativamente, è questo il fondo armonico su cui fiorisce brevemente il melos di cui s’è detto.

La ripresa costante di tre simili bicordi ascendenti, ogni volta incorniciata da corone (quasi un invito alla meditazione, per un gesto di sospensione e di rarefazione non solo facilmente relazionabile a certo spirito “scupoliano”,  ma proprio consono al Colusso delle ultime opere, particolarmente inteso a sottrarre e a cesellare materiali), sembra peraltro evocare e mettere in rilievo antiche sonorità “napoletane” – quasi una distorta eco di quella “scala frigia” che la iatromusica del Seicento riteneva particolarmente confacente alle tensioni emotive più forti, se non proprio agli accessi di furore.
Forse, mi lascio avviluppare un po’ troppo dalla rete di simboli propria di  processi cultuali stratificati, ma anche per via di simili reminiscenze sonore, la battaglia organizzata da Colusso contro l’antico serpente, che sempre s’agita nel fondo tenebroso di ciascuno di noi, sembra portar traccia in sé di remote tenzoni contro tarantole luciferine. Quelle velenose tarantole che, emissarie del Demonio nella Terra d’Otranto di Scupoli, anche il clero tridentino s’impegnò a combattere a suon di strumenti e di melodie popolari, cercando di orientare in senso tutto cristiano riti agonici ben più ancestrali.


[1] F. Colusso, Diari, 26 dicembre 2009, XXII, p. 5. Ringrazio l’autore per avermi permesso la lettura di queste sue pagine “segrete”, cronaca di combattimenti, interiori e no, quotidianamente affrontati in nome dell’arte. [2] Modo di dire la Corona in appendice al Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, Napoli, Gargano e Nucci, 1610, p. 289: mi permetto di traslare un’insistita preoccupazione del padre teatino, ben consapevole di quanto resti difficile “regolare la lingua dell’uomo”. [3] L’idea di coronare con tre nuove armonie l’antico Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli (ed. Napoli, ut supra) è stata, come intuibile, di Flavio Colusso, maestro della Cappella musicale della Provincia Teatina d’Italia, che ha voluto coinvolgere nelle celebrazioni per l’anno scupoliano tanto Vito Paternoster, suo collaboratore da circa vent’anni, cioè dai tempi almeno dell’Inzaffirìo, suggestiva sequela di sei preghiere mariane per soprano, violoncello ed archi,  create e incastonate dal Paternoster in altrettanti preludi bachiani (CD Musicaimmagine Records, 1993, solisti Patrizia Pace e lo stesso Paternoster, orchestra Ensemble Seicentonovecento); quanto Mariano Paternoster, figlio di Vito, pure sensibile a certe commistioni Between  old and new, per citare il titolo di un’antologia di brani per violoncello, pianoforte e orchestra, composti dai due Paternoster sempre nello spirito della rivisitazione culturale multistrata (cd Baryton, 2010, solisti Vito Paternoster e Pierluigi Camicia, orchestra  La Lyra di Anfione). [4] Il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, cit., capitolo I, In che consista la perfezione cristiana. Per acquistarla bisogna combattere. [5] Il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, cit., capitolo XXI, Modo di regolare i sensi esteriori e come da quelli si possa passare alla contemplazione della divinità, capoverso finale. Nel capitolo successivo, intitolato Le cose medesime ci servono per regolare i nostri sensi, passando alla meditazione del Verbo incarnato nei misteri della sua vita e della sua passione, il concetto d’armonia è così rimodulato: «Sentendo il canto degli uccelli o altri canti, eleva la mente a quelli del paradiso dove risuona un continuo alleluia e prega il Signore che ti faccia degno di lodarlo in perpetuo insieme con quegli spiriti celesti». [6] Riprendo la metafora usata dal regista George Brintrup per suggerire quale sia la forza dell’arte, e di quella musicale soprattutto: citazione da F. Colusso, Per cinque voci (e infinite memorie), «Annali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Lettere dei Virtuosi del Pantheon», X, 2010, pp. 23-35. [7] F. Colusso, La “nuovantica” Missa Sancti Andreae Avellino, prefazione  dell’autore all’edizione della partitura del Proprium Missae della festa del Santo, con testi di Valentin Arteaga CR e Vincenzo Cosenza CR, Lucca, LIM, 2008, coll. Musica Theatina VI. [8] Sono tutte risonanze, queste, già evidenziate da P. E. Carapezza, La Missa Sancti Andreae Avellino di Flavio Colusso, Ivi, pp. VII-IX. [9] Cfr. F. Colusso, Ad arma fideles: una chiave di lettura per l’Homme armé di Giacomo Carissimi, Atti del Convegno internazionale di Studi su Giacomo Carissimi, Roma 2005, in corso di pubblicazione. La fonte testuale e musicale cui più direttamene si rifà Colusso è un mottetto a 5 voci del compositore siciliano Vincenzo Amato (1629-1670), tratto dai Sacri Concerti a 2.3.4. e 5. Voci, con una Messa a 3. e a 4. Voci […], Libro I, Palermo, Giuseppe Bisagni, 1652 (trascr. di Giuseppe Collisani per la prima ripresa moderna del 2003). Non poche le chiamate alle armi, s’è detto, nella prassi devozionale del Seicento: basti citare i mottetti dall’identico incipit (ma i versi sono poi differenti, decisamente più bellicosi ed ‘estroversi’ rispetto a quelli scelti da Amato e Colusso) di Kaspar Forster (1616-73, allievo di Marco Scacchi e di Giacomo Carissimi, fu maestro di cappella a Copenaghen e Danzica) e di Giovan Battista Bassani (1647-1716, attivo fra Bologna, Ferrara e Bergamo). Il primo scrive un brano a 3 voci (CCB) ed organo, in cui ritornelli contrappuntistici si intersecano a passi monodici più ariosi. Il secondo, elabora di fatto una cantata virtuosistica per voce sola (B), ricca di arie col da capo e con vivace concertazione di due violini e basso continuo. [10] Astuto, maligno, perverso, ostinato è, questo serpente, anche per Scupoli (Combattimento spirituale, cit, passim); ma soprattutto è demone benissimo accomodato in ognuno di noi, così che nella battaglia morale occorre «vincere se stessi: qui è tutto!»: capitolo  XII, Molte volontà esistono nell’uomo. La guerra che si fanno tra loro. [11] Cfr. Ivi, capitolo XXIV, Il modo di regolare la lingua: «Il silenzio è una gran fortezza della battaglia spirituale […], è amico di chi diffida di se stesso e confida in Dio […]; prendi amore per questa virtù e, per farti l’abitudine, taci per qualche tempo anche dove non sarebbe male parlare». Ancor più suggestivamente nelle Aggiunte, cit., capitolo XIV, Altro modo di orare: «[… volgiti a Dio] senz’altro dire, jacolandogli [sic] di tempo in tempo sospiri, volgendogli un cuore desideroso di piacergli ed infocato desiderio che ti soccorra». Una vera, musicalissima, semantica del silenzio.

Le "recondite armonie" Theatine di Flavio Colusso

Claudio Strinati, "Festa del Te Deum" 2008

Flavio Colusso nella sua parabola di compositore sta portando sempre più avanti l’istanza di camminare su una molteplicità di direzioni che si intersecano inevitabilmente e fatalmente in una unica via a sua volta diramantesi verso una pluralità di sentieri.
E adesso l’impatto su Giacomo Puccini e sull’idea stessa della “recondita armonia” lo induce a elaborare una partitura in cui il tema fondamentale è proprio quello delle pieghe recondite su cui costruisce il suo discorso lontano da qualunque idea di citazionismo, del tutto estranea alla sua mentalità e alla sua prassi.

In realtà la scrittura di Colusso è qui un vero e proprio dialogo con Puccini di cui vengono assunte una serie di idee che diventano la struttura e la linfa vitale della nuova opera, a cominciare da quel tipo di rapporto sublime con alcuni elementi determinanti da cui scaturisce sia il flusso dell’ispirazione pucciniana sia quello della ispirazione moderna di Colusso.
Già il suono delle campane prediletto da Puccini, così tipicamente “romano”, entra naturalmente nel tessuto elaborato da Colusso quasi che i due maestri si rispondano a distanza, in maniera esplicita e misteriosa nel contempo.
Da questo suono meraviglioso comincia quel processo per cui la musica sembra germogliare pianamente per invadere lo spazio sonoro animandolo della sua stessa presenza e moltiplicando gli echi che si inseguono e ascendono letteralmente verso un cielo che è nel contempo fisico e mentale. Qui lo spazio della chiesa teatina è in sé determinante quale fattore di creatività quasi condizionante sul tessuto musicale.
La musica si dipana a suggerire una implicita rotazione che porta in alto avvolgendo gli ascoltatori-spettatori partecipi di un evento in corso che li vede coinvolti emotivamente e concettualmente.
I musicisti sono sotto la cupola mirabile del Lanfranco e il senso della ascesa diviene elemento portante di tutta la composizione.
Questa salita fu a suo tempo, nella prima metà del Seicento, la quintessenza del linguaggio pittorico barocco che nel severo e nobilissimo ambiente teatino trovò il proprio campo di espansione più pertinente. Ancora oggi chi entra in Sant’Andrea della Valle e medita sulla sovrana bellezza degli affreschi di Giovanni Lanfranco con l’Assunzione della Vergine, forse la prima cupola barocca in assoluto di tutta la storia della pittura occidentale, non può non avvertire quel senso di liberazione e di estasi con cui il pittore, allievo ideale del Correggio in quell’incredibile e precario equilibrio di sacro e profano, trascina coloro i quali si pongano di fronte alle opere con animo sgombro di pregiudizi e desideroso solo di capire e amare. Proprio il Lanfranco visse in prima persona quella idea dell’incrocio di tanti percorsi che portano verso altre dimensioni da cui scaturisce la dimensione barocca in sé.
Ma non ci si può accontentare di una definizione. Qui non si tratta tanto di “barocco” ma di una dimensione universale dell’arte pittorica che pone al centro della sua ispirazione lo sganciamento dal gravame della materia pesante e consegue quell’istanza di leggerezza e profondità che induce a sentire il vortice del movimento e della salita dentro immagini ferme e depositate una volta per tutte sulla altissima cupola.
La pittura del Lanfranco sollecita nell’osservatore una sorta di viscerale adesione al proprio linguaggio depurato da qualunque intellettualismo e da qualunque eccesso di riflessione speculativa che pure ne sono a presupposto. E Colusso nella elaborazione del testo musicale è completamente immerso in questa dimensione emotiva e quasi si direbbe viscerale da cui la sua opera scaturisce spontaneamente.
Così l’allaccio con Puccini diventa diretto e immediato. La Madonna e Tosca cantano insieme e accanto a frammenti pucciniani, talvolta ben riconoscibili talvolta più segreti, trapelano anche le note solenni e bellissime di tempi ben più antichi come in una eco veramente commovente di un frammento di Arcadelt che viaggia insieme con tutto il resto.
Ed eccole allora le “bellezze diverse” di cui dice Puccini che sono altrettanti spunti a salire verso il cielo della bellezza, tali da creare una vera e propria dinamica temporale su cui procede il discorso musicale complessivo.

Così la Tosca pucciniana viene connessa con il Tonus solemnis gregoriano del Te Deum e questo a sua volta con evocazioni dei Maestri Cantori wagneriani in questa vera e propria necessità di ascesa che rapisce l’ascoltatore e lo porta verso una patria spirituale eletta, accompagnato da suoni possenti e marcati e da suoni eterei che sfiorano il battito leggero delle ali degli angeli. E, del resto, nel canto pucciniano stesso il tema del volo è affermato perentoriamente.
Così nel discorso di Colusso si rimescolano i prediletti argomenti teatini quasi che un destino singolare e entro certi limiti insondabile avesse fin qui accompagnato il compositore, Maestro di Cappella teatino, nel solco di una tradizione secolare, a tenere sempre serrate le fila della propria ispirazione che ritorna continuamente verso la figura di san Giacomo (cui è legato anche il Padre fondatore dei Teatini, san Gaetano Thiene, che rinunciò ai suoi beni nell’antico Ospedale “degli Incurabili” di Roma), persino nella suggestione del nome essendo Giacomo il nome di Puccini stesso, quasi che una necessità storica portasse Colusso a tornare in continuazione sui temi fatali del Nome, della Speranza, del Sangue che già lo coinvolsero profondamente rispetto alla figura di san Gennaro e ora nel più vasto e universale tema del Te Deum. La musica di Colusso in effetti è tutta interpretabile come una colossale festa di ringraziamento (tale infatti è nella sua intima essenza il Te Deum) in cui la scrittura musicale assume plasticamente le forme di un inno in cui passato e presente convivono senza alcuna frattura e tutto è riplasmato da una mano che vive la dimensione della tradizione come un unico immenso retaggio dentro il quale la scrittura della piena maturità convive con la semplice immaginazione del fanciullo che assiste sbalordito alla sua stessa epifania e celebra la gloria della musica che dona bene e positività e realmente affratella in un afflato che mantiene intatto il suo fascino dialogando con l’altro da sé che pure le appartiene.

vedi allegato

La "Missa Sancti Andreae Avellino" di Flavio Colusso

Paolo Emilio Carapezza, "Musica Theatina" vol. VI, Lucca, LIM, 2008

"Ogni scriba dotto del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" (Mt, 13,52). Così Flavio Colusso (1960), romano, maestro di cappella dei Teatini d’Italia, discepolo di due eccellenti compositori d’audacissima avanguardia, Franco Evangelisti (1926-1980) e Domenico Guàccero (1927-1984), è divenuto compositore di musica antica: tra le sue opere un libro di madrigali, oratori, "esercizi spirituali", tre messe polifoniche e altre musiche liturgiche; ha fondato e dirige l’Ensemble Seicentonovecento.

Questa sua Missa Sancti Andreae  Avellino, finita di comporre nel 2007 e subito cantata e sonata proprio il 10 novembre, festa del santo eponimo, nella Basilica di San Paolo Maggiore in Napoli, è musica antica e novissima assieme. Antica è la struttura generale: quella polifonica, policorale, concertata su basso continuo, del barocco trionfante del Seicento, ma piena di più antiche tradizioni: canto gregoriano (ora puro, ora imbastardito), cantus planus binatim, tropi, lauda e fanfare, contrappunti e falsobordoni rinascimentali; e soprattutto di moderni artifici, miscele, cambi e sorprese. Davvero Seicento-Novecento. Quest’associazione è tutt’altro che scontata; il Novecento infatti si collega di solito più facilmente al Settecento: epoche entrambe di rigidezze e cristalli sonori. Queste nella storia della musica della nostra civiltà sembran peraltro alternarsi ad epoche libere e fluide: così, dopo la variata fluidità dell’antica musica ellenica, la rigidezza iterante di quella medievale; dopo la rinnovata ed ampliata fluidità del rinascimento e del barocco, da Josquin a Monteverdi, Provenzale e Corelli, il rigore cristallino del rococò illuminista, da Alessandro Scarlatti e Vivaldi fino a tutto lo stile galante del Settecento e persino ai crescendo di Rossini. Ma in tal rigore ritmico-melico sorge e si sviluppa la nuova fluidità dialettica classico-romantica della forma sonata, che dilagherà nell’Ottocento. E il Novecento poi è epoca assai più ricca di rigidezze (cristalli varèsiani-strawinskiani, dodecafonia e serialismo, minimalismo postmoderno) che di libere fluidità.

Ma Flavio Colusso, come compositore, s’innesta direttamente sul culmine del barocco, ben prima della cristallizzazione formale del rococò. Egli prova a rifare la storia della musica, ripartendo direttamente dall’apice della metà del Seicento, dalla massima espansione e sublimazione dell’eros, visibile nella Santa Teresa in estasi (1644-1652) di Gian Lorenzo Bernini, udibile nei salmi del Vespro dello Stellario (1644-1655) di Bonaventura Rubino. Da qui, saltando di tre secoli, giunge al tardo Novecento ed all’inizio del terzo millennio.

La struttura di questa sua Missa Sancti Andreae Avellino è quella del concerto vocale-strumentale policorale barocco. L’organico è di quattro cori: tre vocali e uno strumentale. Tre cori vocali eterogenei: un coro monodico femminile (coro di voci bianche), un coro monodico maschile (schola gregoriana) e un "coro favorito" di sei solisti (due soprani, un contralto, due tenori e un basso); per un totale di 2 + 6 = 8 parti vocali reali. Il coro strumentale si articola in quattro quartetti:
–    un quartetto d’archi, melici-parlanti: due  violini, viola e violoncello;
–    un quartetto d’ottoni, melici-squillanti: tromba, cornetto e due tromboni;
–    un quartetto armonico di "strumenti perfetti": arpa, organo, santur e tiorba; un singolo esecutore prende ora la tiorba, ora il santur (salterio persiano-turco);
–    un quartetto di percussioni: grancassa, tam-tam grande, campanelli liturgici e campane; un singolo sonatore percuote i quattro strumenti.

L’armonia è in fondo triadica-tonale; ma la ricchezza di dissonanze la rifrange in mille guise, accendendola di colori cangianti. L’opera si articola in nove sezioni: quattro ordinarie (Kyrie e Gloria; Sanctus e Agnus Dei) e cinque proprie (Introitus, Alleluja e Offertorium, Communio e Lauda); la doppia coppia di quelle è preceduta dalla prima di queste sezioni, inframmezzata dalla seconda e terza, seguita dalle ultime due. I testi intonati sono in latino: tranne il Kyrie, ch’è in greco antico, con tropi in castigliano, in inglese e in italiano; e tranne gli ultimi due: Communio in castigliano, Lauda in italiano.

Nell’Introitus, ora monodico, ora polifonico, le ondate d’arpa e d’organo riecheggiano la pratica dei tintinnabula di Arvo Pärt; le sciabolate di luce abbagliante degli ottoni, che nella dossologia finale appropriate glorificano la Santissima Trinità, fanno pensare alla gioiosa banda della Muzyczka 2 di Górecki. Il Kyrie è tropato, variato cioè con appropriate interpolazioni di testi verbali in varie lingue: la "Luz de la aurora" è simbolo del Padre, fonte ed origine d’ognuno e d’ogni cosa; il "Sun at its height" del mezzogiorno è simbolo del Figlio, compimento del mito e culmine della storia; il "Cielo sempre più alto" della notte è simbolo dello Spirito Santo, mutuo amore tra quelli coinvolgente il cosmo intero. Le ondate introduttive del quartetto d’archi fanno pensare alle cellule góreckiane che lentamente s’espandono e si riducono. Il classico testo liturgico in greco antico è intonato sia dal sestetto in contrappunto fiorito che dai due cori monodici; il verso spagnolo dal primo soprano, quello inglese dal contralto, quello italiano di nuovo dal primo soprano.

Il Gloria, introdotto da un accordo squillante e tintinnante, inizia canonicamente col canto gregoriano d’un tenore solo; entrano quindi, e s’accavallano e si mescolano, il sestetto di solisti ora in contrappunto ora in falsobordone, e i due cori monodici, intarsiati da discreti ornamenti strumentali.
L’Alleluja è introdotto dalla tromba squillante con la scala ascendente di Sol maggiore, simbolo della salita alla vita eterna ed alla gloria del paradiso: il suo versetto è infatti quello evangelico (Lc, 12,37) dei "servi vigilantes" con tali doni ricompensati dal Signore. L’Alleluja è cantato da tutte le voci e sonato da quasi tutti gli strumenti: i quattro ottoni e i quattro archi, con organo e tiorba che improvvisano su basso continuo; è il primo tutti, ed anche l’unico, oltre quelli della lauda finale. Il versetto è invece un sobrio bicinio di soprano e contralto, punteggiato dagli accordi degli archi. Si ripete quindi il possente Alleluja. L’Offertorium è affidato dapprima alle tre voci acute del sestetto in rudimentale discanto, quindi a quattro voci in falsobordone, con incastonati accordi d’archi e arpeggi d’organo e d’arpa. S’aggiungono i due cori monodici: dapprima le voci bianche in canto misurato; poi su di esso, brevemente in discanto, il cantus firmus della schola, a impetrare che "ci protegga il Signore dispiegando come vele le sue immense ali": affascinante ne è l’immagine dipinta dall’arpa e dagli ottoni, mentre le quattro voci soliste riprendono, in declamato accordale l’invocazione, sugli arpeggi e i glissati del santur. È il culmine del brano e forse dell’intera composizione. Entrano poi finalmente tutte le voci e gli strumenti assieme, ma brevemente. Subito la sonorità diminuisce, sulla solenne declamazione del basso solista in registro profondo; e il pezzo finisce, proprio com’era cominciato, col rudimentale discanto a cappella delle tre voci acute.

Il Sanctus e Benedictus sono intonati dai cori monodici, quello in cantus firmus, questo in cantus firmus binatim: tra d’essi, e poi di nuovo in conclusione, l’Hosanna d’un quartetto vocale di solisti in sonora omofonia fiorita. A questo infine rispondono i cori monodici, uniti a intervallo d’ottava, sostenuti dal basso continuo d’organo e tiorba.

L’Agnus Dei è introdotto da ottoni, arpa ed archi, su basso continuo d’organo e tiorba. L’invocazione è dapprima affidata alla maestà del basso solo, cui rispondono dapprima le tre voci soliste femminili, poi anche i due cori monodici in contrappunto tra loro. La seconda invocazione del basso solo è accompagnata "in eco" dal coro monodico femminile. La terza e ultima invocazione è intonata dal suddetto quartetto di solisti, cui s’aggiungono i due cori monodici, di nuovo in contrappunto tra loro.

La Communio è un responsorio in endecasillabi castigliani: al ritornello "Fuera hermoso morirse como tú", rispondono tre strofe di cinque, sei e cinque versi. Dopo quattro misure d’introduzione strumentale, accordi su basso continuo, le voci bianche intonano il ritornello, sempre su basso continuo, mentre la schola gregoriana canta le strofe, ornate da arpa e santur. Sull’ultima ricorrenza del ritornello si uniscono all’ottava i due cori monodici. Conclude un postludio strumentale.

La messa si conclude con una Lauda, dotta e moderna, ma di sapore antico e popolare: quattro strofe tetrastiche, inframmezzate dalle ricorrenze del ritornello, anch’esso di quattro versi; quelle di quattro endecasillabi, questo di due endecasillabi seguiti ciascuno da un novenario. Non so se la melodia Colusso l’abbia desunta e riadattata, ovvero l’abbia inventata: è comunque felicissima, ed egli la ricama abilmente in un tessuto armonico ricco e variato, sempre su basso continuo di organo e tiorba. Dopo un’introduzione strumentale, il sestetto vocale canta la prima strofa e il ritornello. La seconda strofa è intonata dalla schola, con arpa ed archi obbligati, e il ritornello da tutte le voci e tutti gli strumenti; la terza strofa dalle voci bianche, con organo e trombone obbligati, e il ritornello da tutti; la quarta strofa dai due cori monodici uniti (a intervallo d’ottava) con organo, arpa ed archi obbligati, e il ritornello finale da tutti, con un’eco delle sei voci soliste.

Muzyka staropolska  ("musica antica polacca") nel 1969 Henryk Mykolaj Górecki intitolò la sua op. 24, per quattro cori strumentali: quattro trom-be, quattro tromboni, cinque corni e archi. In essa due fonti antiche, una del XIV secolo e una del XVI, della tradizione polacca vengono assunte come temi antichi per una moderna elaborazione: ricerca di maggiori complessità formali nell’orizzonte del presente, e affondo verticale fino al nucleo della tradizione. Così quest’opera vocale e strumentale di Flavio Colusso potrebbe viceversa intitolarsi Musica antica italiana ("Muzyka starowloska"): antica anch’essa e assieme moderna. La musica antica e moderna, secentesca e novecentesca, di Flavio Colusso si basa sulla solida struttura centrifuga dei Concerti e delle Sacrae Symphoniae gabrieliane: su queste egli meravigliosamente innesta da un lato stilemi e procedimenti compositivi centripeti della tradizione italiana medievale e rinascimentale, dall’altro la pluralità estroversa di linguaggi e procedimenti centrifughi di Penderecki, le onde sonore crescenti e calanti introverse e centripete di Górecki, i tintinnabuli di Pärt, le mutazioni sorprendenti e improvvise di Szymanski. Ma questa sua nuova opera soprattutto somiglia, per versatilità e mutevolezza di lingue verbali (latina, greca, italiana, castigliana, inglese) e di linguaggi musicali, per l’appropriata ricchezza di rimembranze incastonate, per l’efficacia delle immagini, ai Cantos di Ezra Pound. Come nella poesia di Pound, così nella musica di Colusso non c’è confine tra antico e moderno, tra opera originale e traduzioni: queste sono sempre trasposizioni che conseguono alta fedeltà poetica, grazie alla vasta e profonda cultura dell’autore.

vedi allegato

All’inizio era la Favola; e vi sarà sempre

immagine, poesia e canto di Amarilli nel mio Primo Libro di Madrigali
Flavio Colusso, "L’Orecchio di Giano" 2006

Nel 1979, durante il periodo dei miei studi e delle mie avventurose ricerche musicali in giro per il mondo, ancora era assai vivo l’esercizio parallelo del disegno; oltre a lavori più impegnativi e agli schizzi sui miei Diari, esistono di quegli anni alcuni taccuini colmi di suggestioni e percezioni còlte nel quotidiano, intere tematiche e piccole tracce di saghe personali – molte volte inconsapevoli – sviluppate attraverso tratti accennati, più o meno rarefatti: in quell’anno si materializzò sulle pagine di uno di questi quaderni, la mia prima Amarilli. Non mi è possibile stabilire con esattezza la sua data di nascita, ma posso dire che insieme a lei nasceva dentro di me tutto un mondo che ancor oggi mi capita di frequentare; un  «Paesaggio ideale» che, sul riverbero dalla memoria dell’antico Locus amoenus, era ed è tuttora per me un modo di presentare, trasfigurare e idealizzare la natura,  «statica e sempre bella» e l’immagine che di essa si creava il mio spirito.

Di questa rozza ninfa semi-velata e dalle labbra procaci, gli occhi grandi e svuotati, il collo cinto di perle, i piedi semi-caprini, le ascelle, le mammelle e il sesso generosamente e pudicamente mostrati, potevo fin sentire risuonare la voce che parlava-cantava-gridava con le sue compagne, con le selve e le fere, con gli dèi, con me (… ma non è facile spiegare ciò che si sperimenta e non si comprende appieno); il regno del favoloso mi cominciò a sembrare molto più vicino di quanto io non credessi.
Fu così che cominciai a percepire quegli «ascosi tesori dell’amaro vegliar» indicati nell’intonazione del madrigale di Achille Falcone Il Tesoro nascosto, di cui intanto avevo rintracciato a Bologna l’edizione a stampa del 1603.
Il sommo Virgilio, oltre ad essere fra i primi a nominare la bella e «bisbetica» Amarilli – selvatica, mezza donna, mezzo animale – che canta, balla e innamora i pastori (sembra quasi di ascoltare un vecchio racconto sulle «danze delle fate» dei pastori-zampognari abruzzesi e immergersi nello stesso «immaginario fantastico» e notturno e nella medesima «armonia panica»), è forse l’autore latino che più ha contribuito a creare i caratteri fissi del paesaggio ideale. «Accanto al tema della natura serena si forma inevitabilmente quello dei pastori abbandonati ad essa e anch’essi felici, senza preoccupazioni di carattere cittadino e quindi per lo più idealizzati». (R. Mugellesi, 1975)

Questo mio ciclo grafico ha avuto più fortuna di altri e si è sviluppato propagandosi in differenti rami che riaffioravano di quando in quando, almeno fino al 1984. Poi iniziai a frequentare Villa Lante al Gianicolo; ricordo che una delle poche persone a cui mostrai i disegni delle Amarilli fu la cara amica e grande artista finlandese Eila Hiltunen, la quale nel 1985 mi consigliò affettuosamente di «camminare sulla mia strada senza ascoltare troppe opinioni e “guide”»: così feci. Dopo un lungo periodo di gestazione, durante il quale le mie Amarilli rimaste chiuse nei taccuini vagolavano nei loro scenari assolati e mi dettavano-distillavano in musica i segni che in passato comunicavano attraverso le immagini, nel luglio del 1999 nacquero le mie prime pagine musicali ispirate da queste figure: immagine, poesia e canto si sublimavano nella insistente idea di un Primo libro dei “Madrigali illustrati”. In quei giorni appuntavo sul Diario: «Qualche giorno fa è nata la bella pagina […]: ciclo che sarà mai compiuto? Dio sa quanto mi piacerebbe completarlo e fissarne la poetica. È ora – e sempre – una questione di tempo e di commissione. […] Al momento ho più disegni che poesie e musiche».

Cinque di questi brani  sono stati poi completati ed eseguiti a Villa Lante nel 2003; mentre attendevo a questi brevi componimenti annotavo «[…] ed ora è prorompente il ruscello delle fate, che dai boschi montani arrivano ad irrorare il cuore di nuovi ardori Antichi; verso l’appuntamento di Giano, con le mie belle Amarilli. E insieme non potevano che riascoltarsi “in echo” alcuni poetici componimenti del ciclo di Luzzascho». Nel percorso di scrittura, la “complicità” del luogo committente aveva ormai acquisito un ruolo attivo «dando luogo a curiose contaminazioni del tutto libere da complessi di inferiorità nei riguardi dell’antico», la Villa trovava nei nuovi Dialoghi della Antica & Moderna Musica dei nostri concerti de L’Orecchio di Giano l’occasione per attuare «l’ideale antiquario proprio […] dell’atteggiamento rinascimentale verso le fonti classiche, vuoi letterarie, vuoi archeologiche». (P. Marconi, 1974) 
Il personale Locus amoenus intuito-ricercato nei giovanili disegni trovava realizzate sul colle Gianicolo – già sede “ideale” e storica dell’Arcadia letteraria voluta dalla regina Christina di Svezia – e in particolare nella Villa Lante, capolavoro architettonico di Giulio Romano, «le due tradizioni, l’italica e l’ellenistica, che si erano già incontrate e fuse per dar luogo alla definizione della domus […]» e che qui si incontravano ancora in una nuova Arcadia “bi-fronte” per definire «un tipo di abitazione lussuosa che, introdotta a Roma, prese il nome di Horti in omaggio alle antiche tradizioni agresti». (T. Carunchio, 1974)
Dopo questa prima esecuzione, il Diario registrava che «il Concerto è passato abbastanza bene sia nella parte antica che in quella moderna. Le mie Amarilli hanno incontrato assai favorevolmente. Sono poca cosa, dal punto di vista strettamente “quantitativo”, di sforzo realizzativo. Ma la lirica atmosfera e l’esito sono quelli che mi aspettavo da almeno dieci anni… ».

La protagonista del celebre Pastor fido di Giovan Battista Guarini era nuovamente guardata e ascoltata – «senza prendere in prestito gli occhi di nessuno» – anche come un’allegoria della città eterna, in cui gli schiavi non sono più sottoposti a un padrone, ma sono schiavi d’Amore: la poesia e il linguaggio non avevano acquisito un eccessivo ruolo del segno materiale della scrittura; ed ecco, con la separazione – necessaria – fra Altare ed esercizio, non difettavano di armonia “semplice”, di ri-sonanza. Rileggendo e riscrivendo, oltre la pagina “data”, il riverbero delle pagine piene di “scrivi-scrivi-scrivi”, riviveva anche la mia favola: interregno tra due fasi, su cui “regna” un punto coronato musicale; una porta, stretta; un confine inconsistente in cui aleggia la memoria del dio Giano.

Basati su alcuni suggestivi frammenti poetici di Virgilio, Tasso e Guarini, questi primi cinque madrigali sono segnati per un organico variabile di voci, “zufolo in echo” e pianoforte (o arpa): l’essenzialità della scrittura e della grafia impiegata in questi brani testimonia l’esercizio e il coraggio di “semplificare” quel tanto da non aver bisogno di anteporre nessuna indicazione né scrivere complesse spiegazioni tecniche e Legende di esecuzione: «Niente di più. Ma niente di meno», come altrove chiedeva P. Valéry.

Poche parole, linee essenziali, crudi bicinia, sospesi accordi e liquidi arpeggi dello strumento, bastavano a rendere i toni sfumati dei sogni, in cui affetti contrastanti si trasformano giustapponendosi con un procedimento “henarmonico”; Novalis sintetizza efficacemente questa condizione annotando: «Una fiaba è proprio come un’immagine di sogno – senza nesso – Un ensemble di cose ed eventi meravigliosi – per esempio una fantasia musicale – le sequenze armoniche di un’arpa eolia – la natura stessa».

Oggi questi nuovi sette frammenti per lo stesso organico, sono pronti e, insieme ai primi cinque, costituiscono un corpus quantomeno desueto nell’ambito del mio Catalogo: dodici madrigali in un unico “libro”, come la celebre raccolta dell’ammirato ferrarese, come molte “mute” di madrigali cinque-seicenteschi.

Acquisisce per l’Ensemble Seicentonovecento e per me un significato speciale il fatto che il Libro prenda finalmente vita nella sua interezza nella stessa occasione della rinnovata “lettura” del libretto della Favola pastorale L’amorose passioni di Fileno del “mio” maestro Jacomo. Auguri: ecco a voi Fileno & Amarilli. Vivete felici.

vedi allegato

Missa Sancti Jacobi "super Gracias"

Pupi Avati, nota di presentazione (dal booklet del CD, 2004)

Nella mia professione capita regolarmente di avere un rapporto con la musica, musica che a volte ti è di supporto indispensabile per esprimere quelle sensazioni che le pieghe della storia che narri riservano e che né le parole del testo né le immagini riescono totalmente a dire. A volte, e questi incontri rappresentano l’eccezione, mi è occorso di imbattermi in suggestioni musicali che andavano al di là di ciò che mi attendevo, che mi conducevano in un altrove dal quale venivo “soggiogato”.

Ascoltando la "Missa Sancti Jacobi super Gracias” ho vissuto questa esperienza, del tutto comparabile a quella di chi compie un viaggio, luminoso, non solo verso il “Campus stellae”, campo delle stelle dove la leggenda dice sia stato trovato miracolosamente la tomba dell’apostolo Giacomo, ma verso un appuntamento cui siamo chiamati da tempo immemore e del quale percepiamo immediatamente l’irresistibile potenzialità attrattiva.
L’atmosfera magica di sospensione, l’esercizio della “battaglia spirituale” con i suoi segnali di guerra, il suono evocatore di strumenti antichi come le campane, la tromba naturale, l’arpa tripla, la ricostruzione di una sontuosa liturgia arcaica, tutto ci riconduce al Portico della Gloria nella cattedrale di Santiago dove l’immagine dell’Apostolo accoglie gli esausti pellegrini.
Il Camino de Santiago è per noi simbolo delle radici culturali dell’Europa, un continente già dall’anno mille agglutinato dalla fede, dai suoi santuari, dai suoi “labirinti spirituali”.

Dal nostro Ospedale e dalla nostra Basilica, conchiglia di santità sempre rinnovata, condivido spesso una sorta di ritrovata, rinnovata, liturgia che grazie al prezioso lavoro della Cappella Musicale è capace di miracoli come questo: la proposta della Missa Sancti Jacobi “super Gracias”, nelle scelte poetiche e musicali più filologicamente rispettose e, nel contempo, così misteriosamente aderenti a questo nostro terribile tempo.

La peculiarità creativa di Flavio Colusso è racchiusa tutta in questa filosofia dell’arte, intesa come creazione e ri-creazione in cui l’arcaico e il presente si incontrano in una commovente, umanissima, sintesi.

vedi allegato

Il Verbum Divino che si fa canto: nel mondo della musica sacra attraverso la musica dei grandi maestri del passato e del presente

Giovanni Acciai, "Venite Pastores" 2004

Alcune fra le composizioni raccolte nel programma di questo concerto, oltre a rappresentare un’occasione di ascolto preziosa per la loro rarità (il Ripieno in pastorale, il Quaerite primum regnum Dei di Wolfgang Amadeus Mozart, il Te Deum di Nicola Porpora, lo Studio per il Te Deum Teatino di Flavio Colusso e sono in prima esecuzione moderna), offrono non pochi motivi di approfondimento intorno a uno dei periodi piú complessi della nostra storia musicale e, purtroppo, ancor oggi cosí poco conosciuto, almeno su questo versante: il periodo barocco.

È, infatti, cosa risaputa che l’elaborazione di categorie storiografiche volte ad interpretare globalmente gli atteggiamenti di un’epoca in trasformazione non sempre è operazione critica di agevole attuazione. Piú che altro si tratta di fissare una convenzione metodologica che per comodità di esposizione favorisca l’analisi storiografica senza pretendere di ottenere risultati totalizzanti.

Il periodo storico entro il quale si collocano le musiche in programma copre un arco di tempo compreso  fra la prima metà del secolo XVII e la seconda metà del successivo.
È questa un’epoca che sotto il profilo musicale conduce al superamento dell’estetica rinascimentale e all’affermazione di quella barocca. È un’epoca in cui la musica penetra nel profondo della sua essenza e la trasforma e in cui le leggi della costruzione musicale si fanno salde e definite, derivate l’una dall’altra senza che vi si intromettano altri elementi oltre quelli dell’oggetto da costruire cioè dell’immagine sonora perseguita. È un’epoca in cui l’influenza delle arti visive si fa molto forte; lo diventa comunque su chi, come noi, è abituato a ragionare in termini di tempo e di spazio, inevitabili forme della vita corporea e insieme dell’intelletto. Nel delirio degli spazi e delle linee di una costruzione barocca, si riconquistano i caratteri strutturali delle forme e la coerenza dei rilievi plastici della musica barocca. Forse nulla di piú simile alla logica dell’architettura barocca può essere adatto a rendere l’idea dei brani che si ascolteranno nel corso di questa serata. Brani che si collocano nel grande alveo della musica religiosa settecentesca, straripante di capolavori di indiscusso valore artistico che a tutt’oggi attendono di essere riproposti all’attenzione del pubblico attraverso un paziente quanto rigoroso lavoro di scelta e di revisione critica.

Non si può negare che ogni epoca storica mantenga nei confronti di alcuni  musicisti del passato atteggiamenti discriminanti, avvalorati talvolta da giudizi superficiali e sbrigativi. Mentre molti compositori dei secoli scorsi sono stati, in tempi recenti, riscoperti e rivalutati, altri, pur importanti all’epoca in cui vissero, sono rimasti confinati in angoli oscuri della storia e, dunque, quasi del tutto ignorati. Le ragioni di questo oblio sono molteplici e abbastanza chiare: sicuramente vanno collegate con l’esistenza di un’affinità stilistica ed estetica di un’epoca con la Weltanschauung di un personaggio del passato o, meglio ancora, col desiderio di ritrovare nelle opere certi valori andati dispersi. A ben vedere, questo modo di procedere trova molti punti di contatto con la prassi seguita in altri campi per delimitare epoche storiche o definire categorie estetiche: come ben si sa, per questa via si finisce sempre per operare scelte ed esprimere giudizi di per sé discriminanti, dunque pericolosamente restrittivi. […]

Confesso di non conoscere per intero la produzione artistica di Flavio Colusso ma, se un’opinione posso esprimere su di essa, limitando la mia indagine al solo Studio per il Te Deum Teatino, è questo: un senso di chiarezza e di sintesi unito a una straordinaria capacità di sfruttamento dei mezzi musicali impiegati e un’assoluta libertà di immaginazione. 
Figlio di un’epoca divisa tra pericolose fughe in avanti di un’avanguardia talvolta vuota di idee e di contenuti e tra gli altrettanto perigliosi balzi all’indietro di una retroguardia conservatrice e nostalgica, Colusso dimostra di voler opporre a questo sterile bipolarismo un atteggiamento positivo, riuscendo sempre a far convivere nella sua arte creativa, vivacità di pensiero e grande coerenza stilistica.

La sua musica, non v’è dubbio, è musica d’oggi, ma si avverte in essa un legame solido con il retaggio del passato. Vi si coglie con evidenza il senso di una modernità che non si alimenta alla pura enunciazione di sé stessa ma si nutre della rielaborazione personale di canoni compositivi indagati fin nelle pieghe più profonde della loro essenza. Ciò vale sia per la sperimentazione e l’applicazione delle formule compositive sia per l’esplorazione delle possibilità tecnico-espressive dello strumento «voce».

Questa innata vocazione al canto, questa predilezione per la voce che si sposa con la parola e, nel nostro caso, con la parola devozionale, è condotta sul filo di una riflessione strutturale e musicale che, nella sua eterogenea ricchezza, si lascia ricondurre sempre all’alveo di un’esperienza che trae la sua linfa ispirativa dai modelli dell’antica melopea gregoriana e della polifonia rinascimentale.

Nello Studio per il Te Deum Teatino per grande orchestra (flauti, oboi, fagotti, trombe, tromboni, campane, timpani, gran cassa, arpa, archi e organo) si evidenzia la forza di un contrappunto rappresentato più con le sembianze del ricamo prezioso che con le fattezze dell’architettura massiccia e di una situazione melodica che si incontrano in una definizione formale e soprattutto espressiva, in cui il magistero degli antichi maestri è una presenza di cultura profondamente acquisita ed operante in una proiezione attuale e non un ricordo compiaciuto o una citazione erudita da nota a piè di pagina.

Queste considerazioni non devono però essere fraintese. Non devono in alcun modo far pensare alla musica di Flavio Colusso come a un sofisticato esercizio intellettuale. Al contrario, imbrigliati e trasfigurati nell’elaborazione formale, sono il temperamento vigoroso e la vitalità intellettuale di un uomo che vive intensamente l’arte, e quella al servizio della parola di Dio in modo particolare, come esigenza primaria dell’essere e non come sua narcisistica ostentazione.

La parola, dunque, il verbum divino che si fa canto, è l’elemento propulsivo della fantasia creativa di Colusso, il pungolo che stimola di continuo la sua fervida invenzione. Siano le diafane sonorità di protopolifonie medievali echeggianti in apertura di brano su frammenti motivici dell’inno gregoriano, seguenti i massicci accordi dell’organo nell’exordium introduttivo, oppure i successivi e piú complessi agglomerati sonori conseguenti l’elaborazione tematica del cantus firmus preso a prestito, il risultato estetico che se ne trae è sempre una musica che si fissa e si libra in uno spazio che spinge in avanti, ma che costringe anche a volgersi indietro, a interrogare il passato, inteso non come reliquia della memoria ma come fonte ispirativa per la realtà musicale del presente.

Una musica, quella di Colusso, difficile da classificare e da contestualizzare in una precisa categoria stilistica, proprio perché collocata in un favoloso, mitico tempo, né passato né futuro, sospesa in una dimensione di straordinaria ampiezza lirica ed emotiva, che poi, a ben vedere, non è altro che la testimonianza di un cifra stilistica personale, libera da qualsivoglia demarcazione di tempo e di spazio.

vedi allegato

Sulla strada di Mascagni

Nuove iniziative mascagnane
Mario Morini, Musicalia (agosto/settembre 1993)

Pur avendo già recensito positivamente su queste stesse pagine la prima incisione mondiale della Messa di Gloria di Mascagni diretta da Flavio Colusso, non ritengo superfluo pronunciare altre parole elogiative sul lavoro del giovane ma già illustre direttore. Ce ne vorrebbero assai, ma freneremo gli entusiasmi che il maestro ha saputo suscitare con questa sua «sacra» realizzazione mascagnana per parlare invece di programmi futuri, di progetti che hanno acquisito forma e concretezza in questi ultimi mesi tanto da coinvolgermi personalmente e dunque incanalare e ben regolare questi nuovi entusiasmi in legittime affermazioni di successo. Quante volte ci si è lamentati della mancanza di una approfondita ricerca storico-critica intorno all’arte mascagnana e di quanto ancora siano scarne le esecuzioni di valore che, con la loro attendibilità ed efficacia, possano supportare inequivocabilmente un giudizio, da parte del pubblico e degli studiosi, sereno e concreto sull’arte del musicista livornese.
La grandezza di Mascagni è d’altronde da taluni messa ancora in discussione, vuoi per partito preso contro la «scomoda» figura rappresentata dall’autore a cavallo dei due secoli, vuoi per una sorta di suscettibile e sospettoso distacco verso cose troppo famose o semplicemente di troppo facile approccio dal punto di vista del sentimento, dell’idea musicale.
A questi studi, a queste esecuzioni bisogna, oggi più che mai, guardare, con un occhio di saggia premonizione. C’è bisogno di tanta energia, entusiasmo e competenza: ingredienti che si legano assai bene quando si incontrano musicisti di talento sui quali investire per un concreto oggi e un luminoso domani. D’altronde vediamo ogni momento la statica situazione dell’interpretazione mascagnana attuale: dietro una falsa idea di tradizione si cela un universo di «croste» ormai obsolete e, oserei dire, antistoriche, dannose alla libertà dell’espressione artistica e spirituale degli autori e degli interpreti.
Questo coincidere di pigrizie culturali, inattitudini e beceraggini ha distorto in più di una occasione il vero portato della scrittura di autori «famosi» attraverso errori di interpretazioni superficiali quanto supponenti cui non riesce a contrapporsi neanche l’amorevole cura da parte di interpreti qualificati. In questo contesto si viene dunque a ben inserire il coraggioso ed esemplare lavoro di rivalutazione e promozione operato da Colusso e dalla nuova casa editrice Musicaimmagine.
Un costituendo Comitato, formato sotto gli auspici degli eredi Mascagni, gestirà sotto la mia direzione, un ampio ventaglio di proposte e realizzazioni che vedono, nelle concrete fasi già intraprese, i primi successi e riconoscimenti. Una iniziativa editoriale destinata ad una larga utenza, ma ispirata a criteri scientifici e di rigore storico, è alla base di una indagine capillare nel repertorio e nei documenti mascagnani. Si sta infatti lavorando ad una prima edizione dell’Epistolario di Mascagni, ragionato e compendiato, che analizza con diverse chiavi di lettura i carteggi, i documenti e le cronache essenziali al completamento dell’immagine, finalmente «restaurata», del musicista di Cavalleria rusticana. Fondamentale strumento è la già auspicata «Mascagni Edition» discografica, felicemente iniziata con la Messa di gloria e che proseguirà con il poema musicale A Giacomo Leopardi per orchestra e voce di soprano. Questa composizione, che vede l’alternarsi del clima pensoso a quello giocoso e «infantile», verrà presentata una nuova, intelligente e raffinata lettura che affida a una voce recitante i frammenti leopardiani collegati dall’autore con frasi liriche.
Questa sorta di sfumature sembreranno a taluni di secondaria importanza ma, di fronte ad esecuzioni che non fanno il minimo sforzo per sembrare musicali, ne acquistano di enorme per la loro pregnanza e peculiarità assolute testimoniando una sensibilità culturale e un appropriato senso della misura, indispensabile a rendere pagine che, come questa, fondano la loro intima essenza sul «canto» orchestrale e vocale. Seguirà un altro titolo in corso di realizzazione dedicato a composizioni cameristiche e sacre, giovanili e non, di Mascagni. Accanto a questi programmi di lavoro vorrei segnalare un’altra iniziativa di contorno al contesto più propriamente mascagnano: mi riferisco all’incisione discografica della Missa in gloria Dei Patris per soli, coro e organo «Petri Mascagni memoriae dicata, Haec missa brevis scripta est cum six notis tertii cromatici mascagnani gradus: Mi-Sol-Sol#-Si-Do-Re#-Mi», di Francesco Saverio Salfi autore e direttore d’orchestra cosentino.

vedi allegato

La moda del Teatro alla Moda

Intervista a Flavio Colusso sul "Pasticcio" ricavato dalla "Didone abbandonata" del pugliese Domenico Sarri.
Carlo Boschi, Suonosud (gennaio-marzo 1990)

La punta di diamante del "Progetto Roma Barocca", programmato nel Festival Internazionale di Roma "Platea Estate" 1989, è stata senz’altro quell’arguta commedia in perfetto stile settecentesco che Flavio Colusso ha realizzato dall’intermezzo L’Impresario delle Canarie. Dai 34 minuti originari del testo di Pietro Metastasio musicato da Domenico Sarri (1724) sono scaturite ben due ore di musica e di intrattenimento nel più puro stile, barocco appunto, del "pasticcio". La nuova trama, che rispetta l’originale gioco amoroso fra la virtuosa Dorina e l’impresario Nibbio, aggiunge al libretto del Metastasio la figura di Morante, castrato di successo e spasimante di Dorina, vari attori, fra i quali due cameriere, un suggeritore, il Metastasio stesso e un "Orso". Dal trio centrale si sviluppano gli abituali equivoci e promesse non mantenute ironizzando sulle manie dei cantanti e i vizi del teatro. Lo spettacolo funziona assai bene, il gusto e l’esperienza di Flavio Colusso hanno consentito una perfetta continuità tra la narrazione originale e le parti aggiunte ex novo. In particolare l’inserimento del terzo personaggio offre uno squarcio su quella celeberrima scuola di castrati fiorita a Napoli fra il Seicento e il Settecento.

In occasione dello spettacolo, andato in scena al Teatro Quirino il 31 ottobre, tra il primo e il secondo atto abbiamo raggiunto il maestro Colusso nel suo camerino per rivolgergli alcune domande.
 
Come si spiega la scelta di scrivere e rappresentare un Pasticcio in un’epoca come la nostra, attenta alle riprese "integrali" e "originali" degli autori del passato?
Dobbiamo premettere che storicamente non c’è recupero senza implicito adattamento e, attualmente, in un’epoca ambigua che ha fatto degli interpreti i propri idoli senza però sviluppare un linguaggio compositivo comunicativo e originale, è lecito domandarsi se non sia possibile, anzi necessario, fare un po’ di pulizia proprio mescolando le carte: l’attuale ”rinascita" del melodramma, poggiata su una certa rigidezza di programmazione, non basta e non è significativa del risanamento fra scrittura e palcoscenico.

Erano altri tempi, che non sembrano tornare.. . ma la Storia infine si ripete sempre.
Sembrerà strano ma il declino dell’Opera è cominciato con la progressiva eliminazione della necessità di sbarcare il lunario della "stagione" o della "piazza". Certo, il Teatro di Corte era già abbastanza gravido di stantìa occupazione, ma, come dice lei, erano altri tempi e poi c’erano le novità, ogni giorno.
Dove sono, oggi, le gloriose compagnie italiane che giravano le Corti, le piazze e le taverne di tutto il mondo? Oggi mancano i capocomici e quegli impresari che facevano un po’ di tutto e che con grande inventiva e personalità improntavano la professione a livelli che oggi non immaginiamo. Siamo inutilmente perfezionisti e aridamente filologi, ma di quel che il Teatro vuole siamo ignari e profani: la moda del teatro si sostituisce al "Teatro alla Moda", con tutti i pregi e i difetti.

Il "Teatro alla Moda". Questo è anche il sottotitolo del suo interessante lavoro. In che misura entrano nello spettacolo Marcello, Metastasio, gli altri autori e poi la critica e la satira del malcostume teatrale dell’epoca, i castrati, il pubblico?
Il mondo del teatro d’opera è pieno di aneddoti e convenzioni sugli impresari, i cantanti, i poeti, i protettori che oggi come allora vivono la loro bizzarra e affascinante professione sul rischio economico e penale, sul mercimonio, sull’intrigo amoroso e sul compromesso. Il Teatro alla moda, il famoso libriccino di Benedetto Marcello, nobile "dilettante" veneto, è stato l’inizio di una nuova critica consapevole, che si manifestò in seguito sulla stampa e sui palcoscenici. Anche il libretto dell’intermezzo del Metastasio è il primo esempio di una simpatica filiazione, agguerrita e arricchita di condimenti e parodie che volevano essere un "programma" di lavoro, di ricostruzione. Un po’ come il nostro, oggi.

In che senso un "programma" oggi?
È una questione un po’ lunga, ma cercherò di spiegarmi: nel caso di Marcello, oltre ai sani principi c’era un po’ un fatto personale contro l’Opera in genere e contro Vivaldi che era il factotum-deus ex machina dei teatri veneziani. Metastasio esordiva allora con la Didone e già preannunciava i suoi caratteri, imprimendovi la forza espressiva ricercata nella perfezione formale aulica, che maturerà successivamente, ma senza mai superare quel primo passo decisivo. Le critiche e le riforme di allora (come purtroppo quelle severe di oggi) pretendevano di applicare il metro della grande arte assoluta all’Opera, che invece era un funzionale artigianato collettivo nel quale poeti, artisti, musicisti e pittori davano il meglio delle rispettive facoltà. Un concetto molto statico quello di arte unica, assoluta e compiuta in sé che non trova riscontro nel melodramma fin dalla sua nascita avvenuta in seno ad un’altra utopica "ricostruzione" arcaica. Io mi considero un po’ un ultimo figlio di Molière e cerco soprattutto di avvicinare il pubblico al teatro per riavvicinarlo alla vita: sto individuando un nuovo stile drammatico, metà prosa e metà opera, imperniato sull’ascendente storico molieriano e della Commedia dell’Arte, qualcosa che tenga presente anche l’esperienza di Roberto De Simone e Michael Aspinall, un’idea che stiamo cercando di lanciare per la prossima stagione e che speriamo porterà frutti positivi soprattutto nella volontà di smuovere certe "croste" dovute a pigrizia artistica, grigiore di costumi e immobilismo delle compagnie.
Tentare un ideale coordinamento, insomma?
Sì, nella "minaccia" bizzarra di mescolare le carte, cui accennavo prima, c’è una profonda volontà di ordine e amore per il teatro. Forse bisognerebbe anche cercare di "mescolare" le strutture, gli Enti che producono e distribuiscono spettacolo.

Che limiti e tempi si può porre un’utopia come questa, che però sembra già affermare un "evento", nel senso positivo del termine, sociale e culturale?
L’esperienza teatrale, musicale e storico-musicologica che abbiamo maturato con i miei collaboratori, accresciuta dai consensi e dalla fiducia di molti addetti ai lavori e del pubblico, ha portato ai risultati delle ultime produzioni: Il Pianto di Rodomonte, Turchesca, La Maga Circe. Questo Impresario rappresentato, nella forma attuale, dal Teatro di Tenerife (Isole Canarie) in occasione di un Congresso Internazionale sul Teatro lirico, annuncia un "programma", un nuovo modo di fare teatro. Limiti e tempi non saremo noi a imporceli, purtroppo il sistema produttivo lo conosciamo bene e le pieghe dell’Abito sono molte, quando non eccessive, per cominciare a intravedere il Monaco.

Flavio Colusso direttore e regista. Come nasce e come è possibile ancora oggi questa tradizionale figura di "allestitore" nel panorama teatrale odierno?
Se fu possibile lo dovrebbe essere ancora. Certo è molto più faticoso di un tempo, in quanto la settorialità delle specializzazioni ha fatto perdere molta della elasticità intrinseca al teatro stesso. In più, l’industria dei mass-media e la "critica specializzata" non favoriscono propriamente l’idea. Dischi, video e televisione obbligano e abituano tra l’altro ad una perfezione artificiale e preconfezionata (e così anche tempi e costi di produzione salgono alle stelle).
Per quanto mi riguarda, ho cominciato molto giovane a lavorare alla RAI per le commedie musicali di Garinei e Giovannini e in dodici anni di carriera non ho disdegnato nessuna esperienza che portasse buon frutto alle mie idee culturali e alla pratica del teatro. Senza rimpiangere e rinnegare nulla, ho fatto per molti anni anche il cantante, l’attore nel cinema e nel teatro, l’assistente musicale, l’aiuto regista, il maestro di coro, il copista, l’organizzatore, il direttore artistico di teatro, il docente di Conservatorio, il revisore, il compositore, il pittore, il maestro di canto. Molteplicità di esperienze che consiglio a ogni giovane che intenda avvicinarsi al teatro. Ma oggi, purtroppo, si è molto concentrati su se stessi, sulla competitività del mestiere.

Nelle polemiche diatribe, oggi stemperate, fra Accademici e "barocchisti" ad oltranza, il "Gruppo di Voci & Strumenti Antichi" come si pone?
Senza dilungarmi sui termini, penso che ogni epoca abbia forgiato la musica per il proprio pubblico e gli strumenti per la propria musica. Il nostro "Gruppo" [Ensemble Seicentonovecento], pur definito di strumenti antichi, esegue composizioni che spaziano dal ’600 al ’900, con appropriati criteri: il presente stesso è già passato. Il prossimo anno ricorre il nostro primo decennio di studi ed esecuzioni. Siamo stati tra i primi in Italia a diffondere molto repertorio di grande valore musicale sistematicamente abbandonato dalla storia per "fisiologica" necessità culturale. In questo, più che lo strumento antico, vale comunque la coscienza musicale e il buon gusto, oltre naturalmente ad un adeguato supporto storico-critico necessario d’altronde per eseguire qualunque autore, anche Brahms, Ravel o Bussotti. Lo stesso discorso è valido per le voci, sulle quali ristagna una generale ignoranza tecnica e interpretativa dei documenti storici.

Domenico Sarri è stato riportato alla luce solo con quel suo intermezzo per La Didone abbandonata. Un’implicita condanna?
Sì, e disturba alquanto l’atteggiamento di falsa necessità di esprimere un "giudizio critico" sul valore del musicista. È questa una distorsione dovuta alla mancanza di applicazione pratica dei molti studiosi teorici, dei nostri "professori". Eleggere sempre i massimi e principali rappresentanti in confronti agonistici è poco produttivo: a che serve decretare codesti giudizi se non si dà la possibilità concreta di conoscere la produzione musicale di un autore nella sua complessità?
Nel caso specifico Sarri, pugliese, astro della Scuola napoletana, condivide le sorti di illustri colleghi sconosciuti e ineseguiti fra i quali mi piace ricordare Giacomo Carissimi, visto che tra l’altro la finestra del nostro camerino si affaccia sull’Oratorio del SS.mo Crocifisso, dove il grande maestro secentesco si manifestò con un’immensa attività musicale.

Ritornando al problema della vocalità: ci parli di questa figura di Morante, castrato eccezionale da lei aggiunto nell’intreccio dell’opera, qui impersonato da Gianni Pala-Contini e riecheggiante tutta la schiatta dei musici-divi e canori "elefanti" del ’700.
Mi piacerebbe dilungarmi e rispondere ad ogni cosa ma purtroppo il tempo stringe per il secondo atto e devo prepararmi a "volare" con quel Rosignuolo in pasto al pubblico da sempre sazio eppure affamato di convenzioni e immagini riflesse.
Le anticipo solo che sto preparando un altro spettacolo tutto sui castrati nel quale, senza particolari e scontati accenti farseschi, si riscoprano gli altari di una sconosciuta realtà storica e vocale allora protetta dalla Chiesa, in una moderna apoteosi dei Musici, nati "mostri" e assunti in cielo come angeli divini.

Data la brevità di tempo a disposizione e l’estremo interesse degli argomenti trattati con Flavio Colusso gli abbiamo chiesto di parlarci più diffusamente in un suo prossimo articolo per Suonosud. Lo spettacolo prosegue poi godibilissimo fino al "martellante" finale dove il numeroso e attentissimo pubblico tributa giuste ovazioni a tutti gli interpreti e al Colusso direttore e regista. Giorgio Gatti nei panni dell’Impresario Nibbio, Adriana Cicogna, la virtuosa Dorina, il "mostro" Gianni Pala-Contini nei panni del castrato Morante («Cantante superior de’ li cantanti di Partenope» che canta in una vertiginosa tessitura che va dal Re sovracuto del soprano al Mi grave del basso, e gli attori Stefania Cano, Simona Ciammaruconi, Antonio Taschini, Francesco Saverio Vitiello, Anna Carnovali e Renato Giuliani nel ruolo del Metastasio, tutti partecipano ad un successo da approfondire in nuove esperienze.