De’ Cavalieri : Rappresentatione di Anima et di Corpo, 2009
Associazione Alessandro Scarlatti di Napoli
Napoli, Basilica di San Paolo Maggiore
martedì 28 aprile 2009, ore 21:00
nuova produzione di Musicaimmagine e Le Colonne del Decumano in occasione del
XC anniversario di fondazione dell’Associazione Alessandro Scarlatti di Napoli
Cappella Musicale Theatina
Ensemble Seicentonovecento
ideazione e direzione musicale
FLAVIO COLUSSO
regia di
FLAVIO COLUSSO e RENATO GIULIANI
in ordine di apparizione
L’INSERVIENTE Tiziana D’Angelo, Attrice
IL REGISTA Renato Giuliani, Attore
TEMPO/IL DIRETTORE Flavio Colusso, Baritono
INTELLETTO/ PIACERE Jean Nirouët, Alto
CORPO Luigi Petroni, Tenore
ANIMA Elena Cecchi-Fedi, Soprano
CONSIGLIO Alfredo Grandini, Baritono
PIACERE/ ECHO Guido Ferretti, Tenore
PIACERE/ ANIMA DANNATA Giorgio Gatti, Baritono
ANGELO CUSTODE/ ANIMA BEATA II Margherita Pace, Soprano
MONDO Aurio Tomicich, Basso
VITA MONDANA/ ANIMA BEATA I/ ECHO Maria Chiara Chizzoni, Soprano
CHORO, ANGELI IN CIELO, ANIME DANNATE, ANIME BEATE, ECHO
Ensemble Vocale di Napoli diretto da Antonio Spagnolo
con la partecipazione del
Coro del Monastero di San Gregorio Armeno
direttore di produzione : Silvia De Palma
direttore scientifico : Domenico Antonio D’Alessandro
direttore tecnico : Giovanni Sbaffoni
Foto Press
Anema & Cuorpo
La Rappresentatione di Anima, et di Corpo «per recitar cantando» nella elaborazione di Flavio Colusso
La Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri (Roma, 1550 ca. – 1602) è all’origine della musica moderna ed è, ad un tempo, snodo dei generi sacro e profano; da un lato il nascente melodramma, dall’altro l’oratorio: il religioso Agostino Manni scrive un testo appassionato «acciò che il Secolare, et il Religioso ne possan godere», ieri come ai nostri giorni. È da considerarsi tra i “fondamentali” del genere oltre che per il suo valore artistico, per la sua rilevanza formale e programmatica; tutti i personaggi, ipostasi sacre e profane, icone e/o maschere del mondo superno e infero, codificano forme e modi che, nobilitate le antiche sacre rappresentazioni, faranno da modello al teatro controriformistico, e offriranno più di uno spunto, in forma imitativa o parodica, anche alle arti rappresentative profane in un inapparente gioco di specchi. L’occasione del novantesimo anniversario di fondazione della Associazione “Alessandro Scarlatti” di Napoli – cui ci lega un profondo vincolo di assonanza di intenti – la quale vuole riproporre lo stesso titolo nello stesso luogo con cui diede avvio alla sua benemerita attività, ci invita a rileggere le cronache di quegli anni all’inizio del Novecento, attualissime e “profetiche”:
«[… 1919, nella Basilica di San Paolo Maggiore a Napoli …] qui volle il Tebaldini dare effetto al suo divisamento, inteso a produrre sugli ascoltatori una commozione più intima e profonda: penombra, massa orchestrale e cantanti nascosti, raccoglimento solenne, mistero… […] Alla Rappresentazione di Anima e Corpo furono aggiunte alcune Laudi spirituali di Animuccia e di Anerio, contemporanei di Filippo Neri; […] La necessità di numerosi esecutori e di lunghe prove; quella di creare un ambiente raccolto di poesia religiosa; quella, ancora più ardua, di predisporre gli animi alla meditazione, sì che ognuno degli ascoltatori sia in grado di formarsi da sé una realtà immaginaria a seconda del proprio stato, della propria potenzialità; rende difficile e complessa la traduzione oggettiva di un ideale basato soprattutto su elementi soggettivi. Ma prima o dopo, a lustro maggiore dell’arte e a gloria del maestro, l’intento sarà raggiunto. Sic est in fatis!»
La produzione 2009 pensata per la Basilica di San Paolo Maggiore dei reverendi Padri Teatini, prevede un cast di due attori, dieci solisti vocali che formano anche parte del “Choro” e cantano le Parti caratteristiche, una orchestra con strumenti originali comprendente violini, viola, violoncello, flauto dritto, cornetto, tromboni, percussioni, tiorbe, chitarrino, organi, regale, clavicembalo. Un ampio cromatismo strumentale già dall’Autore richiesto esplicitamente negli «Avvertimenti per la presente Rappresentatione, à chi volesse farla recitar cantando» in cui auspica di «far’una musica piena con voci doppie, e quantità assai di stromenti», che siano molti e raddoppiati «quanto si può» secondo il luogo in cui si esegue, il quale «non doveria esser capace al più, che di mille persone, le quali stessero à sedere commodamente». Sempre dagli “Avvertimenti” notiamo quello riguardante il CHORO, il quale «dovrà stare nel Palco parte à sedere, e parte in piedi [...] e tra di loro alle volte cambiar luoghi, et far motivi; et quando havranno da cantare, si levino in piedi per poter fare li loro gesti».
Da queste e da molte altre tracce si ricava l’idea e il progetto dell’ambientazione scenica il quale, tenendo conto delle caratteristiche architettoniche della chiesa, prevede l’utilizzo di alcune semplici strutture di sostegno modulate in livelli che consentono di impostare essenzialmente la moderna regia tenendo conto anche delle indicazioni dell’epoca.
Come un nuovo viaggio nei “mondi”, la nostra lettura teatrale assegna agli artefici dell’operazione la personificazione scenica dei loro ruoli (registi, direttori, consulenti, musicisti, lavoranti, pubblico) e il ruolo di “guida” al personaggio del TEMPO, che è interpretato dallo stesso direttore musicale il quale siede ora qui ora lì e dirige-sovrintende-presiede la Rappresentatione, calata in un contesto di vero esercizio spirituale e di “festa di nozze” dei due protagonisti. Questa Rappresentatione è così da noi elaborata e suddivisa in nove parti conseguenti e mai interrotte: Proemio, recitato (nell’edizione originale questo dialogo era affidato in lingua italiana a due «giovanetti» di nome Avveduto e Prudentio), ma nel quale già si canta una prima Lauda; Atto primo; Sinfonia prima; Lauda seconda; Atto secondo; Sinfonia seconda; Lauda terza; Atto terzo; Festa.
PROEMIO. Mentre si provvede a preparare il palco, prendere misure, accendere lumi, pulire specchi, sistemare oggetti di scena, un faro illumina un’INSERVIENTE, una donna che parla in napoletano. Questa avvicinandosi ad uno dei musicisti, che sta accordando il clavicembalo, gli chiede di rammentargli il motivetto di una certa “canzone di don Pippo nosto” (san Filippo Neri), poi prosegue il suo lavoro mentre, specchiandosi incuriosita in un oggetto di scena, canticchia la Lauda Ogni cosa è vanità composta dal santo fondatore degli Oratoriani. Poi dà inizio al dialogo col REGISTA («n’ommo assignato e giudizioso») che entra in scena con libri, rotoli e matite alla mano, veste una giacca e una lunga sciarpa rossa, parla in italiano con inflessioni del Nord, un po’ di “evvemoscia” e con qualche parola in francese come intercalare: interloquiscono filosofeggiando ai due livelli verbali della loro posizione nella scala sociale; per prendere un po’ di fiato l’Inserviente si accascia su una seggiola - mentre fuori scena si canta la Lauda Anime affaticate e sitibonde - per concludere poi che «Comme sarriemo tutti quanti cchiù alleri si darriamo meno audienzia a la carne e sarriemo capaci de ‘ntennere cà sulo lù bbene ca se trova appresso a Dio cuntenta lu core e no le ricchezze, li piaceri o l’annore; cà chesta vita è nù sciuscio cà oggi ‘nce stà e dimmane ‘nce lassa; cà li piaceri de la carne ‘nzozzano l’anema nosta dè lota; cà lu Paraviso ‘nce dà luce da lo cielo e l’inferno nc’abbrucia da lo sprofunno; cà lu munno vanagloriuso ‘nce ‘nganna e la vita ‘nc’accide cò le lusinghe. ‘Nzomma cà chi ‘ncopp’à sta terra sape mazziare le fatture de Satanasso, trova ‘ncielo la felicità eterna».
ATTO PRIMO. Dal succorpo della chiesa si iniziano a sentire lenti e profondi colpi di grancassa mentre, dalle scale del santuario, sale il TEMPO che inizia a cantare; gli strumenti dell’ORCHESTRA si trovano nel recinto del presbiterio, dietro la balaustra.
Il CHORO, che nell’opera svolge funzioni espressive differenziate di commento e di raccordo, segue lentamente in processione. INTELLETTO e CORPO entrano dalla navata centrale seguendo la processione: Intelletto veste in abito da Chierico Regolare, e tiene in mano il libro del Combattimento Spirituale (importante testo di spiritualità del padre Teatino Lorenzo Scupoli, vissuto proprio nella casa napoletana di San Paolo Maggiore e qui deceduto nel 1610). Sul palco campeggia un grande cubo di specchio di cui non si conosce ancora la funzione: all’interno di esso è imprigionata, senza essere visibile, è rinchiusa ANIMA; Corpo, seduto davanti al cubo, legge il libro del Combattimento Spirituale ricevuto dal Chierico-Intelletto. Ad un certo punto quel fruttuoso dialogo interiore si interrompe, Corpo si alza ed esterna il suo dubbio: «Ahi! chi mi dà consiglio? A qual di due m’appiglio? L’Anima mi conforta, Il senso mi trasporta, La carne mia mi tenta L’eterno mi spaventa: Misero che far deggio? Attaccarommi al peggio? No, no, che non è giusto Per un fallace gusto, Per breve piacer mio, Perder il Ciel, la Vita eterna, e Dio». Decide allora di incamminarsi da Pellegrino «per erta via», e prosegue: «Sì c’hormai Alma mia, Con teco in compagnia Cercharò con amore Il Ciel, la vita eterna, e ’l mio Signore».
Durante la prima Sinfonia («Resta la Scena vota, & segue l’infrascritta Sinfonia per fine del Primo Atto») si illumina dall’alto il cubo, che mostra Anima in abito lungo chiaro e rinchiusa in una gabbia; così come già si decise per l’esecuzione del 1919, alcuni del Choro cantano una Lauda, poi siedono nel recinto presbiteriale;
ATTO SECONDO. Il CONSIGLIO apre senza mezzi termini, e si presenta da solo: solenne personaggio evocato dal Corpo, lo vediamo in abito di padre Domenicano che, da rappresentante della tradizione della Chiesa si fa milite cristiano della Controriforma: «La nostra vita in terra Altro non è, che guerra: Ch’aspri nemici intorno Ci stan la notte, e ’l giorno: E con arte, et inganno Spesso cader ci fanno: Il Mondo si fa bello Col vetro, e con l’orpello: La carne con mal’opre I vermi suoi ricopre: E questa vita ancora Il suo cener indora, Sì che il soldato eletto Armisi il fronte, e ’l petto, Di fé prenda la maglia, E venga à la battaglia Ch’ ogn’huom, ch’a Dio s’è dato, Bisogna esser tentato: Ma felice chi strinse Il suo nemico e vinse, Ch’ in premio se li dona Nel Ciel scettro, e corona».
Il Corpo nel suo peregrinare incontra la “cattiva compagnia” del PIACERE; indossano maschere da Zanni e abiti goliardici; entrano insieme ad “amici” e con musici al seguito (violino, chitarrino, tamburelli, cui si unisce la Ghironda), che così sono richiesti nella partitura dallo stesso compositore: «Il Piacere con li due compagni, sarà bene che habbino stromenti in mano suonando mentre loro cantano, & si suonino i loro Ritornelli. Uno potrà havere un Chitarone, l’altro una Chitarina alla Spagnuola, e l’altro un Cimbaletto con sonagline alla Spagnuola, che facci poco romore, partendosi poi mentre suonaranno l’ultimo ritornello». Un gruppo di amici gaudenti allestisce un improvvisato banchetto sotto al palco: arrivano velocemente tavolo, tovaglia, fiasco e vettovaglie. Ad un tratto la gabbia si illumina e tutti riescono a vedere che Anima vi è rinchiusa; la volontà riesce a rompere gli indugi che costruiscono il maleficio della gabbia che, come una sorta di incanto trattiene la prigioniera: «Non vi cred’io no, no, Li vostri inganni io so: Tutte le vostre cose Che paion dilettose, Al fin son tutte amare, Beata l’alma, che ne sa mancare». Si apre la gabbia ed esce Anima che scaccia il branco di gaudenti: «Via, via false Sirene»!
Il Corpo è finalmente faccia a faccia con la sua Anima; è però ancora stordito e dubbioso, e le confida: «Non so s’è stato bene Lasciar tanto piacer, che’l Mondo tiene». Anima, come prima cosa, interroga il cielo che le risponde attraverso l’ECHO, artificio tipico del teatro rinascimentale e barocco; va a cantare in diverse direzioni da più punti del palco: le risposte dell’Echo verranno da diversi punti delle navate laterali della chiesa, e cantate da sei diverse voci femminili; nel frattempo Anima scrive le risposte («Or, quel, ch’il Ciel t’ha detto. Ecc’io raccolgo intiero») che poi rileggerà tutte insieme ricomponendo l’intero “motto”: «Fuggi-vano-piacer,-ama-Dio-vero». Le sei voci dell’Echo ripropongono a cappella la sequenza dei sei frammenti ri-cantati da Anima, ora riverberati nuovamente.
Dalla cantoria di sinistra irrompe con forza l’ANGELO CUSTODE (la voce viene dall’alto, mentre a terra è illuminata la bellissima statua dell’Angelo Custode dello scultore Domenico Antonio Vaccaro): figura fondamentale dell’intera avventura di Anima e di Corpo, sarà il fautore dell’unione mistica che si realizza nel terzo Atto dell’opera: «Fortissimi guerrieri, Che gl’inimici alteri Havete discacciato, M’ha qui il Signor mandato, Ch’in ogn’impresa forte Il cor vi riconforte: Altra pugna vi resta Faticosa, e molesta, Ma non temete punto, Che son per voi qui giunto E in ogni caso strano Vi porgerò la mano».
Un potente gruppo ingaggia ora un fiero combattimento fra cielo e terra; entra la “macchina” del MONDO: seduto su un trono montato su un carrello trainato e spinto da servitori, è coperto da un ampio mantello d’oro e tiene in mano una “sfera caleidoscopica” di specchio che poi dona alla VITA MONDANA mollemente adagiata ai suoi piedi. Nella partitura questi due mostri sono così descritti: «Il Mondo, & la Vita mondana, in particolare siano vestiti ricchissimamente: e quando saranno spogliati, mostri quello gran povertà, e bruttezza sotto à detti vestiti: questa mostri il corpo di morte». L’Angelo Custode denuncia con chiarezza la vera immagine di questi personaggi, riflessa in molti specchi: «Questo malvagio ingrato È fango inorpellato: Questa falsa, e lasciva, È Morte, che par viva. Or venga, e vegga il Mondo Quel ch’è la Vita e ’l Mondo, Spoglia quest’empio e vede Quel che il tuo cor non crede». Corpo toglie il mantello al Mondo scoprendo la nudità di tutta l’impalcatura. Il cielo trionfa svelando gli effetti di rifrazione che ingigantiscono le cose di quaggiù; l’Angelo Custode indica ormai il sentiero, la porta e la chiave: «Al forte vincitore È debito l’honore L’honor, ch’è apparecchiato Nel Ciel che fa beato: Sì c’hormai da la terra, C’havete vinta in guerra, Volgete il cor’, e ’l viso, E i passi al Paradiso». Cantano gli Angeli «nel Cielo, che s’apre» mentre si accende una luce bianca dietro l’altare maggiore e illumina dal basso il catino absidale: «Venite al Ciel, diletti, Venite, benedetti, Che queste sedi belle Furon fatte per voi sopra le stelle: Lasciate pur la terra, Dov’è perpetua guerra; Salite al Ciel con volo glorioso, Dov’è pace, e riposo, Dove senz’alcun velo Si vede il Re del Cielo».
Con un pizzico di sana ironia, la scena è ricondotta alle nostre povere fatiche terrene; così anche il Choro, da commentatore si fa attore e, coinvolto combattente, nel riposo del guerriero vuole riprendere l’esperimentato esercizio dell’Echo, il quale, però, risponde capricciosamente da posizioni incrociate … «È sorte aventurosa de’ mortali».
La seconda Sinfonia («Segue l’infrascritta Sinfonia per fine del Secondo Atto, & il Choro si pone a sedere») eseguita da tutti gli strumenti, crea lo spazio scenico e il momento giusto per un’altra Lauda.
ATTO TERZO. Intelletto e Consiglio entrano con libri in mano e salgono a due pulpiti posti uno a destra e uno a sinistra; Anima e Corpo entrano dai due lati, separati e accompagnati ciascuno da due ministranti del Choro (due coppie formate da un uomo e una donna), e si inginocchiano come in atto di compiere un “rito d’iniziazione”: questo consiste nel viaggio nei mondi inferi e superni che i due religiosi – come fossero due guide, due Virgili – permettono ai due esercitanti di compiere. «Apresi una Bocca d’Inferno», e cantano le ANIME DANNATE; rispondono le ANIME BEATE «nel Cielo, che s’apre, & chiude l’Inferno».
Anima e Corpo, per la prima ed unica volta in tutta l’opera con le due voci “insieme”, intonano un semplice canto che si richiama al celebre testo pasquale: «Come Cervo assetato, Corre al fonte bramato, Così da noi si brama, e si desìa Salir al Ciel con voi per erta via. Ma prima insiem cantiamo, E ’l gran Signor lodiamo». Da questo ritrovato “fonte bramato” di acqua viva, sgorgheranno le voci di «tutta la moltitudine insieme, dentro e di fuori»: «O Signor santo, e vero». Corpo si spoglia dell’abito da Pellegrino, indossa un lungo mantello bianco e si avvia insieme ad Anima verso l’altare.
È l’intelligenza delle nuove famiglie religiose della Controriforma - volute dal fondatore dei Teatini san Gaetano Thiene (1480-1547) - che attraverso la gioiosa voce dell’Intelletto per prima invita tutti alla Festa, cioè al giubilo spirituale per le nozze mistiche del Corpo con l’Anima: «Voi ch’ascoltando state, Perché non giubilate? Non più, non più pensosi: Tutti lieti, e gioiosi Con festa giubiliamo, Con giubilo cantiamo, Fugga lontano il lutto: Festa, festa per tutto».
Fra gli applausi del pubblico si svolge la FESTA conclusiva in cui ogni gruppo di personaggi fa la sua uscita di ringraziamento: tutte le luci della chiesa sono finalmente accese e, «Tutta la moltitudine insieme», come recita la partitura, suona e canta, “di dentro e di fuora” le sei strofe del Ballo «Chiostri altissimi, e stellati».
Al termine di tutti i saluti, un giovane VALLETTO - che intanto ha distribuito al PUBBLICO fiori e riso da gettare verso Anima e Corpo durante la loro uscita lungo la navata centrale - raggiunge il palco e alza un cartiglio su cui è scritto «Laus Deo», con cui si chiude il libro.